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Kosovo: ancora fumo dalla polveriera d’Europa

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27 luglio, due giornate di tensioni sui valici di confine Bernjak e Jarinje nella zona nord del Kosovo, municipalità di Mitrovica, si concludono con l’esplosione di un ordigno e scontri che provocano la morte di un poliziotto kosovaro e il ferimento di altri tre. La tensione è salita in seguito alla decisione di Pristina di inviare ufficiali di reparti speciali della polizia kosovara a prendere controllo dei valici nord 1 e 31 che collegano il Kosovo con la Serbia. La decisione ha scatenato la risposta della minoranza serba maggioritaria nell’area, che non riconosce l’autorità di Pristina e continua a fare riferimento alle istituzioni serbe che svolgono de facto la maggior parte delle funzioni amministrative sul territorio. A due mesi di distanza la situazione rimane “pacifica ma instabile” come le organizzazioni internazionali e i media amano dipingerla. Instabilità dimostrata dagli incidenti incorsi negli scorsi giorni quando uomini della Kfor hanno aperto il fuoco sui manifestanti serbi che si sono opposti allo smantellamento di uno dei blocchi stradali da parte delle truppe NATO. In linea con il controverso accordo temporaneo raggiunto il 16 settembre, dopo due mesi di spolette diplomatiche e tentativi di mediazione della NATO e dell’ EU, lo staff della missione civile europea EULEX ha preso in carico la gestione delle operazioni di frontiera affiancando il personale kosovaro sotto la tutela delle truppe della Kfor, con parziale soddisfazione di Pristina e il disappunto di Belgrado. Nonostante gli appelli a smantellare le barricate, la comunità serba continua a bloccare la viabilità dell’area a nord del fiume Ibar impedendo la riapertura dei valici 1 e 31. “Questa e’ la nostra terra, il nostro territorio” dichiara uno dei manifestanti al quotidiano B92. “Quando posizioni un ufficiale di frontiera, è come dispiegare una bandiera. E prima che te ne renda conto avrai un cosidetto Kosovo imporre legge e la gente qui sarà circondata da qualcosa che assomiglia allo stato del Kosovo! Loro non possono semplicemente accettare questo! […] Nessuno al mondo può dire a questo popolo serbo di cedere, accettare il Kosovo indipendente e andare a casa. Non accadrà mai, non lo faranno” spiega il capo negoziatore Borislav Stefanovich.

La decisione di Pristina rappresenta l’attuazione della decisione di adottare il principio di reciprocità in materia commerciale nei confronti della Serbia e della Bosnia ed Erzegovina. I due stati, infatti applicano un embargo sulle merci kosovare dal 2008, data dell’unilaterale dichiarazione di indipendenza, rifiutandosi di riconoscere i timbri doganali riportanti la dicitura “Republica del Kosovo”, misura che Belgrado si è ripetutamente rifiutata di ritirare nonostante le pressioni di Pristina nell’ambito del dialogo mediato dall’Unione Europea.

Ma l’atto di Pristina trova evidentemente ragione nella volontà di affermare la sua autorità nella zona nord del paese, dove la maggioranza serba si rifiuta di riconoscere la legittimità del Kosovo e chiede di fare parte della Serbia. L’azione è il tentativo di cambiare la situazione sul terreno, con lo scopo di avere ulteriori ragioni da presentare sul tavolo del dialogo con Belgrado.

Il caso diviene nuova miccia che surriscalda la polveriera balcanica. Benchè adombrata dagli avvenimenti in medioriente, le diatribe che infiammano le focose etnie balcaniche diventano occasione di tensione nella diplomazia internazionale, che si muove nei ristretti margini della neutralità della missione amministrativa ad interim UNMIK, della missione NATO e della missione civile UE. Le riunioni del Consiglio di Sicurezza in cui si è discussa la situazione in Kosovo, ultima il 15 settembre, data di scadenza dell’accordo stipulato il 2 dello stesso mese, dà modo a Mosca di ribadire il suo pieno supporto a Belgrado, sostenuta dalla Cina che, pur meno esplicita, per evidenti ragioni di politica interna non ha alcuna simpatia per l’autoproclamata indipendenza di Pristina. L’ambasciatore russo Churkin non manca l’occasione per ricordare che il Kosovo non è che un ospite in seno all’ONU e che non può partecipare alle riunioni se non accompagnato da un rappresentante UNMIK o su invito di uno Stato Membro. Il congresso internazionale si risolve a ribadire il ruolo della missione di pace e a richiamare EULEX e KFOR a trovare una soluzione tecnica nell’ambito dei sei punti programmatici adottati nel 2008, secondo i quali l’area nord del Kosovo deve esere considerata un’area doganale indipendente. Il Segretario Generale Ban-ki moon ribadisce che il Piano Ahtisaari rimane il quadro più favorevole ai Serbi del nord del Kosovo, suscitando i malumori di Belgrado che lo ritene inaccettabile e ne ha impedito l’adozione da parte del CdS dal 2008.

La crisi mette nuovamente in difficoltà l’UE nel trovare un giusto equilibrio fra carota e bastone, tanto con la Serbia che con Il Kosovo. Sotto la mediazione dell’Unione Europea, in marzo 2011 è stato lanciato un dialogo per discutere gli effetti pratici sviluppatisi a causa del disaccordo sullo status del Kosovo, come cooperazione regionale, telecomunicazioni, riconoscimento dei diplomi etc. Accordi che hanno un impatto importante sulla vita di tutti i giorni della popolazione Kosovara, ma lasciano da parte il nocciolo della questione. Il nord non è infatti in agenda, secondo la volontà di Pristina che si rifiuta di partecipare ad un dialogo politico con Belgrado. Alla vigilia del secondo appuntamento, in agenda il 28 settembre scorso, la strategia del “un passo alla volta” ha cominciato a vacillare. In conseguenza al degenerare della situazione, Tadic ha posto come condizione sine qua non per la continuazione del dialogo l’inserimento all’ordine del giorno della situazione del Nord. Al rifiuto dell’UE, il secondo appuntamento è stato posticipato a data da destinarsi.

La mossa di Tadic evidenza la volontà serba di non rinunciare agli interessi nazionali e cercare di difendere il potere negoziale che può ancora vantare. Potere che si è notevolmente ridotto dal 2008, quando la dichiarazione unilaterale di indipendenza ha messo Belgrado di fronte ad una situazione de facto svantaggiosa rispetto alla rivendicazione di un Kosovo serbo. Parallelamente Pristina preferisce rafforzare il suo controllo sul territorio, soprattutto a nord ed avere il supporto del maggior numero di stati prima di negoziare con Belgrado i termini del divorzio.

A conti fatti, Pristina può contare sulle simpatie degli USA e di alcuni paesi chiave europei come la Germania, la Francia e l’Italia. Cionondimeno, l’operazione lanciata a fine luglio ha reso evidente la debolezza della sua autorità nel nord del paese, dimostrato l’inefficacia della strategia dell’integrazione forzata del nord Kosovo e indebolito la sua posizione nell’ambito del processo politico. Terreno quest’ultimo sul quale cerca di recuperare lavorando intensamente per ottenere il riconoscimento del numero più alto possibile di Stati, che hanno appena raggiunto quota 84 con il riconoscimento nell’ultimo mese di Nigeria, Gabon e Costa d’Avorio. Sull’altro piatto della bilancia, Belgrado ha da rallegrarsi della lealtà dimostrata della popolazione serba di Mitrovica nel momento di crisi, circostanza che ha incrementato la credibilità delle istituzioni “parallele” e dato nuovo iato alla rivendicazione di un Kosovo parte integrante della Serbia. Guadagna inoltre in termini di consenso interno, accontentando le aspirazioni tanto dalle forze di governo che di opposizione, che fanno entrambe della questione del Kosovo serbo propria bandiera. Pesa, però, sulla testa del Presidente Tadic, spada di Damocle, il parere della Commissione Europea circa il conferimento dello status di paese candidato, attesa il prossimo 12 ottobre. Il governo di Tadic ha indubbiamente lavorato intensamente negli ultimi mesi per assicurare un parere positivo. Dopo i due eccellenti arresti di Ratko Mladic e Goran Hadzic, la normalizzazione dei rapporti con Pristina e un positivo atteggiamento nell’ambito del dialogo mediato da Bruxelles, rimane l’ultimo test per ottenere la maturità. Venendo meno alla cautela di rito, nella visita ufficiale pagata a fine agosto, la cancelliera Merkel ha senza mezzi termini avvertito Belgrado che deve smantellare le istituzioni paralle nel nord del paese e normalizzare i rapporti con il Kosovo se vuole avvicinarsi alla membership europea. Del resto la ben nota fatigue ad affrontare un ulteriore allargamento, specie in tempo di crisi, dà ulteriori buone ragioni ai negoziatori di Bruxelles ad utilizzare con gli aspiranti candidati il bastone molto più che la carota. Inoltre Belgrado deve affrontare la pressione delle imprese nazionali che, secondo la Camera di Commercio serba stanno pagando il blocco delle esportazioni verso il Kosovo con perdite di circa 50 milioni di euro al mese. Tadic ha pertanto optato per un approccio certamente risoluto, ma volto, almeno a termini di proclama, ad evitare l’escalation della violenza. La comunità serba kosovara grida oggi al tradimento e all’abbandono da parte della madre patria che ha infine accettato i timbri emessi sotto il controllo Kfor in base all’accordo raggiunto il 16 settembre scorso. Fra gli attori internazionali Mosca sembra rimanere il più strenuo supporter di Belgrado contro l’indipendenza del Kosovo. Con gran disappunto l’ambasciatore russo a Belgrado, Aleksandar Konuzin, dichiara che la Serbia dovrebbe affiancare Mosca piuttosto che l’Unione Europea e la NATO che sono “contro i nostri interessi nazionali”.

Dai colloqui con il Presidente Obama e la baronessa Catherine Ashton, alto rappresentate per la Politica Estera e Sicurezza dell’UE, in occasione della 66 Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Tadic ha ribadito il suo impegno a voler trovare una soluzione diplomatica alla crisi. Ma la diplomazia intesa da Tadic dimostra non rimanere sorda agli appelli a difendere gli interessi nazionali, come il rifiuto di continuare i dialoghi ha messo in evidenza. La mossa riporta alla memoria la diplomazia degli anni ’90, quando la Serbia giocava ad essere vittima, pacificatore e aggressore allo stesso tempo. Nonostante gli appelli ad evitare la violenza lanciati ai manifestanti sull’Ibar, il rifiuto di proseguire i dialoghi rappresenta certamente un pericoloso inasprimento delle relazioni che potrebbe provocare un rapido peggioramento della situazione. Pare inoltre una mossa azzardata, che potrebbe mettere a repentaglio il matrimonio con l’UE a pochi giorni dall’agonato si. La sicurezza ostentata da Božidar Đelićl nel giudizio positivo potrebbe essere ben fondata. Resta da vedere però quali saranno i termini del si e se saranno posti ulteriori benchmarks. Certamente, questo è il momento per USA e Unione Europea di addolcire la carota e rafforzare il bastone, per assumere una leadership più incisiva e ricercare una risoluzione comprensiva alla disputa, tutelando gli interessi di tutti.

La polveriera d’europa per il momento non fa che fumo, ma il passato ci ha già insegnato che è consigliabile non lasciare consumare la miccia.

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